I piccoli gruppi online segnano la nostra identità e ci espongono al giudizio altrui, ma sono anche una grande risorsa, che troverà sempre più spazio nelle interazioni di rete. Non esistono però ancora regole di comportamento ufficiali. Proviamo allora a individuare ed esaminare alcune dinamiche che li caratterizzano.
Nonostante siamo iperconnessi, la cultura digitale è ancora alla sua preistoria. Mi sono convinta di questo dopo che poco tempo fa uno studente mi ha chiesto se poteva uscire da un gruppo di colleghi. Inizialmente la domanda mi ha stupito. Perché io avrei dovuto dargli o non dargli il permesso di uscire da un gruppo di cui nemmeno conoscevo l’esistenza?
Eppure, quella domanda è stata tra le più interessanti del corso.
Effettivamente, riflettendoci, mi sono resa conto che non esistono ancora regole di comportamento ufficiali nei gruppi online, soprattutto in piccoli gruppi che segnano la nostra identità e in cui siamo particolarmente esposti al giudizio altrui. Così ciascuno si barcamena tra buon senso e casualità.
Eppure, proprio i gruppi online richiedono in questo momento più che mai una riflessione sistematica, da parte degli addetti ai lavori per più ragioni.
Proviamo allora a individuare ed esaminare alcune dinamiche che sono sempre presenti e che, pur nella diversità insita in ciascun strumento, ci aiutano a comprendere come dietro l’apparente semplicità dei processi si nasconda una complessità degli effetti e come ogni piccola azione possa avere un peso non chiaro a chi la esegue.
Instant messaging e piccoli gruppi Whatsapp: così ci hanno aiutato ne lockdown
Per quanto fosse una tendenza già in atto prima dell’emergenza, negli ultimi mesi i queste aggregazioni sono state protagoniste delle nostre interazioni sociali, sotto ogni forma possibile e immaginabile, coinvolgendo l’87% della popolazione digitale.
Senza dubbio, durante l’emergenza i media digitali hanno assunto tutti il ruolo prezioso di surrogato alla presenza, permettendo interazioni che diversamente non avrebbero avuto luogo e tutto questo è apprezzabile.
Più che mai le relazioni prossimali hanno avuto bisogno di luoghi privati di condivisione il che ha incrementato sensibilmente l’utilizzo di instant messaging e piccoli gruppi.
In particolare, l’utilizzo di WhatsApp in tutto il mondo è cresciuto del 40%, con particolare incremento delle videochiamate di gruppo, tanto per le call di lavoro quanto per gli incontri familiari.
L’impatto di questo trend si evidenzia anche dalla nascita di Facebook Rooms nella famiglia Zuckerberg, che sfidando Zoom, ha capitalizzato la consapevolezza che le conferenze di gruppo in diretta sono la forma di socialità di questo strano 2020.
Fin qui nulla di nuovo. Siamo animali sociali ed il gruppo è la nostra condizione preferenziale: siamo fisiologicamente programmati alla socialità e cerchiamo costantemente il sostegno altrui. Il punto cruciale diventa che al crescere di un fenomeno spontaneo nel mondo digitale corrispondono degli effetti e dei processi che non sempre sono realmente noti.
Siamo connessi a moltissimi gruppi e quotidianamente ognuno di essi ci invita a partecipare producendo, non sempre in modo consapevole, un impatto sulla nostra realtà cognitiva.
Dinamiche di gruppo online
I gruppi online, con i loro nomi, gli avatar, le norme condivise aumentano il senso di appartenenza dei propri membri, contribuendo a definire l’identità sociale di ciascuno in un modo più fluido e dinamico che in precedenza.
Diviene però possibile individuare alcune dinamiche che sono sempre presenti e vanno tenute senza dubbio in considerazione dinanzi al crescere del ruolo dei gruppi online. Senza entrare nel merito delle differenze che i singoli strumenti presumono, si andranno ad analizzare alcuni processi, con la consapevolezza che ogni strumento presume delle specificità che hanno senza dubbio un loro peso nei processi.
Conformità e groupthink
Il principale processo alla base del loro funzionamento è la norma di conformità.
Le persone si conformano per le più svariate ragioni, ma la principale è sempre essenzialmente la stessa: la desiderabilità sociale, la necessità di sentirsi parte di un gruppo e non essere rifiutati.
Si parla di acquiescenza o compliance perché non coinvolge le convinzioni profonde e durature del soggetto, ma solo le sue opinioni esterne e pubbliche. Il like che faccio al post più commentato sul mio news feed, la condivisione della notizia che è in trend topic, la partecipazione al gruppo dove vedo più miei contatti, sono tutti esempi di un processo di adesione che non necessariamente mi coinvolge profondamente. Può capitare, ed in rete capita spesso, di fare like ad un titolo accattivante e condiviso da un contatto che apprezzo, senza aprire il link ed approfondire la notizia. Quell’azione è compiuta per la mera partecipazione al gruppo piuttosto che per una consapevole adesione cognitiva al contenuto.
Ci si adatta all’opinione di quella che viene percepita come maggioranza tanto quanto occorre per non essere considerati diversi o devianti.
Come ha dimostrato Asch nello storico esperimento del confronto tra linee, questo tipo di conformismo è solo pubblico, giacché le probabilità di condiscendenza con il gruppo scendono drasticamente se le persone possono esprimere la propria opinione in privato. Questo accade perché utilizziamo la maggioranza come ancoraggio, con la convinzione – spesso errata – che se più persone condividono un’opinione avranno una ragione a noi sconosciuta per farlo.
Il processo coinvolto è principalmente quello della “influenza informativa” che si attiva particolarmente in situazioni ambigue ed incerte: il soggetto assume il comportamento che osserva nella maggioranza come fonte di informazioni e si adegua ad esso. Ne deriva che più che mai nei gruppi online, dove tutti possono vedere durevolmente l’opinione espressa aumenta il livello di omogeneità del pensiero di gruppo (groupthink) perché aumenta la percezione di appartenenza. Come ci ha insegna Tajfel con la teoria dei gruppi minimi, è sufficiente il mero processo di etichettamento: se la mia identità si associa anche solo idealmente a quella di un gruppo, quest’ultimo diventerà per me parte della mia identità sociale.
Polarizzazione e identità sociale
Nelle dinamiche di gruppo gioca un ruolo cruciale il fenomeno della polarizzazione di gruppo: il pensiero estremo e conforme diventa anche per i partecipanti sinonimo di affidabilità. In tal senso, il crescere della partecipazione ai gruppi online, può avere un ruolo nell’intensificazione dell’estremismo in rete e della tendenza a comunicare in modo aggressivo con chi non la pensa come noi.[1]
Spears e collaboratori hanno utilizzato un approccio cognitivo inteso a valorizzare il contesto sociale e le sue specificità, illustrando sperimentalmente tramite il modello SIDE (teoria degli effetti di deindividuazione dell’identità sociale) che nei contesti online la polarizzazione si fa particolarmente intensa, soprattutto nel momento in cui i membri percepiscono una forte identità gruppale.
Di fatto una persona mantiene quotidianamente una personalità tutto sommato stabile all’interno dei ruoli sociali che ricopre, ma sarà comunque fondamentale il contesto per definire quale effettivamente andrà ad essere il ruolo con maggior peso nelle interazioni: se quest’ultimo enfatizza l’identità sociale, come accade appunto nei gruppi Whatsapp e nei gruppi online, il riferimento normativo degli attori sarà di fatto l’appartenenza di gruppo. [2]
A maggior ragione nei gruppi Whatsapp, in cui si avverte una maggiore sicurezza per la crittografia end-to end e la maggiore privacy associata allo strumento, si attiva in modo rapido il processo di de-individuazione, così diminuisce il peso dell’identità personale a beneficio dell’influenza delle norme di gruppo, aumentando significativamente l’uso di comportamenti ipersociali. Dal “buongiornissimo kaffè”, alla condivisione delle catene di sant’Antonio (che non si sa mai), al proliferare di fake news, alimentate da una emotività intensa propria dei piccoli gruppi, le conversazioni diventano pressanti e personali, quindi inevitabilmente più persuasive.
Discomunicazione e confirmation bias su gruppi Whatsapp
La questione che diventa rilevante è la propensione delle conversazioni dei gruppi online ad alimentare forme d’interazione distorta e discomunicazioni, per via del pregiudizio positivo di fiducia che c’è al loro interno.
Si pensi al fatto che WhatsApp – assieme agli altri social ma più degli altri – è diventato uno dei modi più comuni per avere informazioni, eppure sembra essere un veicolo particolarmente efficace per seminare sfiducia nelle istituzioni e nell’informazione mainstream.
Questo processo può far nascere un circolo vizioso tutt’altro che tranquillizzante: il mondo pubblico della comunicazione ufficiale, quello che governa i vecchi media, per intenderci, sembra sempre più distante, impersonale e falso, e trova nell’informazione che passa per i gruppi privati un’alternativa valida, uno spazio di simpatia e autenticità. Peccato poi che l’agenda dei media finisca per essere dettata da quello che gira nei gruppi WhatsApp.[3]
Le persone hanno la percezione di scegliere liberamente il gruppo a cui chiedere la partecipazione, trovando altri che abbiano la stessa visione del mondo sulle questioni più disparate, così da rinforzare il proprio punto di vista. Questo comporta un aumento della percezione di essere nel giusto (con l’intensificarsi del confirmation bias) che facilita l’adozione di posizioni intransigenti. Trovando nei gruppi persone che condividono gli stessi interessi e opinioni, per quanto bizzarre e desuete possano essere, le persone alimentano i propri punti di vista e la visione del mondo omogenea. Nel partecipare a discussioni online con individui che condividono le stesse idee, si portano con sé i pregiudizi e si sperimenta l’influsso della polarizzazione, arrivando ad assumere facilmente posizioni estreme. Il contraltare di queste interazioni è che limitano l’incontro con opinioni e fonti che sostengono posizioni opposte, rendendo estremamente complesso il sano confronto.
Oggi siamo perfettamente in grado di selezionare fonti di notizie, gruppi di informazione, siti e blog, che confermino il nostro punto di vista occultando a noi stessi tutte le fonti che potrebbero mettere in discussione le posizioni differenti.
In realtà, esattamente come le agorà digitali più ampie, le piccole comunità presentano i loro pericoli a livello di distorsione della comunicazione e di impatto effettivo e significativo sul comportamento sociale più ampio, con l’aggravante di costruire nella mente del soggetto un rafforzamento dell’opinione intragruppo e un aumento della distanza intergruppi.
Minoranze attive e slacktivismo
C’è di più, il digitale ha modificato il modo in cui le persone si mobilitano in azioni comuni, si riuniscono per scopi o cause e per convincere altre persone a compiere a loro volta azioni e i gruppi privati hanno ancora di più un ruolo in questo processo.
Pensiamo alla rapidità, viralità ed estensione con cui si organizzano tramite social media mobilitazioni impensabili in presenza. I gruppi di minoranza che riescono effettivamente ad impattare sulla maggioranza – definiti da Moscovici di “minoranze attive” – trovano nelle conversazioni private online la possibilità di esprimere e diffondere messaggi in modo virale, sostenendo cause anche a distanze geografiche incredibili ed anche aggirando i canali ufficiali. Lo scorso maggio, solo per fare un esempio, grazie al mobilitarsi dei giovanissimi utenti di TikTok, il presidente Trump ha avuto un brutto colpo in Oklahoma, trovandosi gran parte di arena deserta durante un comizio elettorale. Tra le principali cause proprio una mobilitazione organizzata tramite il social del momento, attraverso il quale gli utenti hanno condiviso l’iniziativa di acquistare i biglietti per l’appuntamento elettorale, con lo specifico intento di bucare l’evento.[4]
Più in generale, abbiamo diversi movimenti che hanno mobilitato e mobilitano il mondo a suon di hashtag portando in piazza le persone, esempi sia positivi che negativi, due dei più belli: il Friday for future di Greta Thunberg ed il Black Lives Matter di Alicia Garz, Patrisse Cullors ed Opal Tometi, hanno mobilitato il mondo a suon di hashtag, portando realmente in piazza le persone.
Il potenziale della rete in questo senso è senza dubbio notevole, così come la sua capacità virale di portare a livello globale questioni che diversamente avrebbero voce solo in piccoli contesti. Viene soddisfatto il bisogno di appartenenza, l’anonimato può contribuire a promuovere identità di gruppo e senso di gruppalità, riducendo la rilevanza delle differenze di istruzioni, classe sociale o nazionalità.
Eppure, per quanto sia affascinante la potenzialità di questi fenomeni di mobilitazione, proprio nelle dinamiche di rete e nella pigrizia cognitiva che contraddistingue gli utenti, si presenta il limite ed il rischio di un attivismo online fatto di azioni facili e limitate negli effetti, che aumentano la percezione di partecipazione ad una causa con un minimo impegno. Un semplice like, una condivisione, l’uso di un hashtag, la firma ad una petizione, soddisfano pigramente il nostro bisogno di sentirci partecipi di una azione collettiva.
Così per qualche giorno si son sentiti tutti ecologisti aggiungendo #frudayforfuture ai feed e tutti antirazzisti condividendo un post con l’hashtag #blacklivesmatter. Il giorno dopo si è tornati ad essere sé stessi, magari usando bottigliette di plastica e disinteressandosi dei problemi razziali. Ma nella personale storia online, la propria identità sociale ha conferma della partecipazione a quei movimenti e l’ego sociale può restare soddisfatto.
In tal senso, viene usato, ormai da tempo, per descrivere questo processo il termine slacktivism[5].
Di fatto questa forma di attivismo presume piccole azioni che richiedono un piccolo sforzo personale per generare un impatto sulla vita comune. Paradossalmente, quella che sembra un’azione eversiva nel piccolo, in realtà è un meccanismo che fornisce una grande potenzialità manipolatoria alla maggioranza. L’uso strategico della messaggistica istantanea e dei gruppi social può generare facili azioni che non presumendo un grande impegno, coinvolgono un gran numero di persone a prescindere dalla loro reale adesione profonda alla causa.
Il problema risiede nel fatto che uno slacktivist si senta parte attiva di un gruppo e di un’azione comune anche solo con la mera adesione ad un gruppo online o ad una campagna online, senza tradurre in azioni concrete a lungo termine e profondo impegno il proprio comportamento off line.
Di fatto una reale minoranza attiva è tale se presume consistenza sincronica e diacronica, mentre molto spesso i movimenti online si esauriscono in un’azione intensa, virale e molto visibile, ma poco duratura nel tempo.
Il rischio concreto è quello già paventato anni fa da Morozov, ma che suona profondamente attuale, di produrre una generazione non di attivisti ma di “slacktivisti”, che pensano che fare clic su una petizione di Facebook sia considerato un atto politico.
Conclusioni
I piccoli gruppi online sono una grande risorsa, che troverà sempre più spazio nelle interazioni di rete soprattutto se il digitale – come si spera – verrà ad essere integrato nelle nostre vite sempre più efficacemente, anche a livello professionale e formativo.
Ormai appare quasi scontato ripeterlo, ma non si tratta semplicemente dell’utilizzo di strumenti, ma integrazioni che vanno studiate in modalità decisamente più capillari. Perché accada è necessario che si crei una cultura digitale che conosca pregi e difetti delle pratiche online, utilizzando con intelligenza le immense potenzialità dei social media ed orientandole in maniera effettivamente pragmatica e funzionale.
La comunicazione online presume una unidirezionalità che va considerata sempre come estrema attenzione. Una condivisione o un like possono avere nessun effetto o un effetto eccessivo all’insaputa di chi, con leggerezza, ha eseguito l’azione. Il punto cruciale è sempre quello di sensibilizzare ad un uso consapevole ed attento degli strumenti e dare il peso dovuto alla partecipazione digitale.
Bibliografia
Rosander M., Eriksson O. Conformity on the internet – The role of task difficulty and gender differences, in Computer in human Behavior, 28, 5, 2012, pp. 1587-1595 ↑
Deutsch, M. e Gerard, H.B. (1955) A study of normative and informational social
Tajfel, H. (1974). Social Identity and Intergroup Behavior Social Science Information 1974 13: 65
Spears R- Lea M (1992) Social influence and the influence of social in Computer-Mediated Communication. in Lea M. (ed) Contexts in Computer-Mediated Communication Harvester Wheatsheaf NY
Morozov, 2020, Net delusion. The dark side of Internet freedom